La falsa promessa della teoria postcoloniale[17]

Intervista con Vivek Chibber di Orazio Irrera e Matthieu Renault
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D.: Durante il suo ultimo soggiorno a Parigi, il titolo che ha dato al suo intervento è stato «La falsa promessa della teoria postcoloniale»[18]. Qual è questa promessa? Che cosa intende proporre la teoria postcoloniale e perché fallirebbe? Questa teoria si basa sin dal principio su dei presupposti erronei?
R.: Lo scoglio principale della teoria postcoloniale è che rende molto difficile la comprensione delle dinamiche sociali del mondo postcoloniale. Si tratta quindi di una critica ad ampio raggio poiché la teoria postcoloniale suppone esattamente di essere una teoria in armonia con le specificità del mondo postcoloniale. A mio parere essa non può in nessun modo spiegare queste specificità. Inoltre essa finisce pure con il mascherarle poiché è fondata su una concezione del mondo postcoloniale che essenzializza questa parte del mondo, trattandola come se fosse governata da dinamiche che non possono essere comprese con le categorie sociali e le teorie che abbiamo ereditato dalle analisi tradizionali della società. Indubbiamente può darsi il caso che il mondo postcoloniale – le sue istituzioni, le sue strutture, la sua storia – sia così differente dall’Occidente da richiedere un quadro teorico totalmente nuovo. Nel qual caso, noi dovremmo riconoscere che la teoria postcoloniale costituisce un effettivo avanzamento, costituendo davvero una critica fondamentale della teoria sociale europea che abbiamo ereditato. Tuttavia essa non è mai stata in grado di dimostrare che il mondo postcoloniale è tanto differente da essere insondabile, da non poter essere compreso attraverso le tradizionali categorie della teoria sociale. Nella misura in cui la teoria postcoloniale non ha mai provato tutto ciò, la sua affermazione secondo la quale vi è uno scarto essenziale, incolmabile, ontologico tra l’Oriente e l’Occidente è non soltanto falsa, ma credo sia pure profondamente ideologica.
Voi mi chiedete se la teoria postcoloniale si basava sin dai suoi inizi su dei presupposti sbagliati. No, non credo. Essa ha avuto inizio con un presupposto plausibile, quello secondo cui vi è una differenza molto profonda tra l’Oriente e l’Occidente, ma che questa differenza è una conseguenza della diversa traiettoria presa dal capitalismo in Oriente. Questo si è rivelato parimenti falso, ma si trattava di un errore empirico che non comportava delle conseguenze teoriche ed epistemologiche di rilievo. Era un errore che risultava dal lavoro di Ranajit Guha, presente subito, sin dal suo inizio, nel primo volume del collettivo dei Subaltern Studies. Il carattere essenzializzante e oscurantista della teoria postcoloniale, a cui ho già fatto riferimento in precedenza, è comparso più tardi, negli anni ’90 – Guha non ne è mai stato il responsabile. Esso è piuttosto apparso nei lavori di gente come Dipesh Chakrabarty e Partha Chatterjee sotto l’influenza di Gayatri Spivak o di Foucault. In seguito, Homi Bhabha ha anch’egli raggiunto questo gruppo. Penso dunque che la teoria postcoloniale fosse profondamente difettosa sin dai suoi inizi ma che solo successivamente i suoi difetti sono diventanti più profondi e più rilevanti.
La conseguenza politica di tutto questo è innanzitutto che la teoria postcoloniale finisce per rivitalizzare e vivificare nuovamente delle concezioni orientaliste dell’Oriente, che sono del resto molto classiche. Facendo ciò penso pure che essa renda legittime delle affermazioni prodotte dall’imperialismo per spiegare perché i diritti e i privilegi comuni non possono essere accordati agli individui che vivono in Oriente. Questo costituisce un risultato assolutamente inaccettabile della teoria postcoloniale. Quest’ultima rende pure molto difficoltosa l’analisi dell’Oriente attraverso le categorie dell’economia politica, fatto molto problematico nella misura in cui paesi come l’India, l’Egitto, la Siria, l’Iraq o il Brasile sono attualmente tutti dei paesi capitalisti. E poiché i teorici postcoloniali affermano che le categorie del capitale e del capitalismo devono essere fondamentalmente emendate poiché sono inadeguate per comprendere l’Oriente, essi finiscono necessariamente per mascherare le lotte operaie e contadine contro il capitale. Credo che quindi la teoria postcoloniale abbia costituito uno sviluppo molto limitato e retrogrado.
D.: Nel suo libro lei ripercorre gli errori che ha individuato tra gli autori postcoloniali relativamente alla loro analisi dello sviluppo del capitalismo in Europa, dunque non solo nel mondo non-europeo. Potrebbe chiarire questo punto?
L’errore risiede principalmente nella loro comprensione di ciò che è stato il normale corso dello sviluppo capitalistico. Secondo loro, l’India e il mondo postcoloniale rappresentavano una deviazione rispetto a quello che è normale. Ma qual è la loro immagine di ciò che è “normale” e da dove proviene? Essa deriva da una concezione particolare dell’esperienza europea. Non sviluppo questo punto nel libro, ma questo concezione è stata ereditata dalla comprensione staliniana ortodossa della transizione al capitalismo e, in particolare, della rivoluzione borghese. Guha mutua questa concezione staliniana della rivoluzione borghese quasi senza alcuna modifica, rendendola di fatto ancora peggiore di quel che era. Si tratta della concezione per cui in Francia e in Inghilterra vi è stata qualcosa che si chiama la rivoluzione democratico-borghese che ha prodotto non solo il capitalismo, ma anche la democrazia, dal momento che questa rivoluzione è stata portata avanti da una borghesia che ha lottato per stabilire una cultura liberale, aperta, inclusiva e democratica. Quando i subalternisti si sono accorti che la borghesia indiana – ma si potrebbe dire la stessa cosa della borghesia egiziana o argentina – non ha fatto la stessa cosa, hanno considerato che si trattava di un fallimento, che i capitalisti avevano abbandonato la loro missione storica. I subalternisti non potevano probabilmente comprendere che quando i capitalisti postcoloniali si battevano contro i diritti democratici, quando stabilivano delle oligarchie, quando rifiutavano di concedere a operai e contadini i diritti e i benefici più comuni, essi facevano semplicemente quello che ovunque i capitalisti fanno e hanno sempre fatto. Non c’è quindi bisogno di una sociologia del mondo postcoloniale interamente nuova poiché le lotte politiche del mondo postcoloniale entrano già in forte risonanza con quel che ha avuto luogo in Occidente all’epoca in cui si è affermato il capitalismo.
Ci sono certo delle differenze molto concrete tra Oriente e Occidente, ma queste differenze risiedono nella temporalità e nei dettagli del capitalismo e non nel fatto che il capitalismo in Oriente sarebbe irriconoscibile, profondamente ed essenzialmente diverso da quello affermatosi in Occidente. Siamo in presenza di qualcosa che i marxisti hanno subito riconosciuto: che il capitalismo in Oriente è sempre identificabile come capitalismo, anche se non è identico al capitalismo in Occidente. Vi è una grande differenza tra non essere identico ed essere differente in modo profondo ed essenziale, essere differente come i Subaltern Studies dicono che l’Oriente sia differente l’Occidente.
D.: Come bisogna comprendere questa “differenza”, che non è una “differenza fondamentale”, tra l’Occidente e l’Oriente? Per essere più precisi, potrebbe formulare alcune proposizioni teoriche o degli esempi di analisi che arrivano a spiegare la genesi di queste differenze – come, se vuole, quelle del sottosviluppo o della dominazione razziale – senza essenzializzarle?
R.: Vi è una lunga storia dell’analisi della differenza che non deriva soltanto dal marxismo del ventesimo secolo, ma anche da altre correnti non dominanti delle scienze sociali. Quando Trotskij ha sviluppato la sua teoria dello sviluppo ineguale e combinato si trattava di un tentativo materialista che cercava di fare due cose: comprendere non solo come il capitalismo trasforma i paesi a sviluppo tardivo, ma anche come, allo stesso tempo, questo capitalismo sia tale da impedire all’Oriente di seguire una via identica a quella dell’Occidente. Si tratta certo di capitalismo, quindi esso appartiene alla stessa specie di formazioni sociali del capitalismo in Occidente, ma siamo in presenza di una varietà che differisce da quella dell’Occidente. Ed è differente senza che questo comporti delle differenze dal punto di vista dei suoi principi strutturali di base. Una teoria molto simile a quella di Trotskij è stata sviluppata negli anni ’60 da Alexander Gerschenkron, uno storico borghese, esule russo negli Stati Uniti. Gerschenkron sviluppò la teoria di quel che egli stesso ha chiamato «i vantaggi dell’arretratezza», giungendo a conclusioni molto vicine a quelle di Trotskij. Ovvero, che i paesi arretrati si trovano di fronte dei dilemmi che i paesi a sviluppo più precoce non hanno conosciuto, ma beneficiano nondimeno di alcuni vantaggi derivanti dal fatto di emergere tardivamente che permettono loro di sviluppare delle sacche di settori produttivi che evolvono molto rapidamente, sebbene siano circondati da condizioni agrarie molto arretrate. Si tratta di esempi di analisi della differenza che non essenzializzano l’Oriente. Non è possibile rendere pienamente conto della maniera in cui il mondo postcoloniale possa essere analizzato attraverso questo quadro teorico, poiché si tratta di una progetto di ricerca ancora in corso. Il mio libro non voleva sostenere che esiste una teoria sviluppata e completa dell’Oriente che si potrebbe offrire a posto della teoria postcoloniale, ma mostrare che c’è un progetto e un programma di ricerca in corso che generano dei risultati concreti, dei risultati positivi che i teorici postcoloniali ignorano completamente o passano sotto silenzio.
È un errore pensare che il marxismo o qualunque altra teoria possano spiegare tutti gli aspetti della differenza tra Oriente e Occidente. Quel che il marxismo può spiegare, in modo specificamente marxista, sono gli aspetti della differenza che sono generati dalle dinamiche del capitalismo e della lotta di classe, o della struttura di classe. Ci sono numerosi aspetti del mondo non occidentale che differiscono dall’Occidente senza essere il prodotto della classe né tantomeno del capitalismo. Dovremmo cercare di esser capaci di produrre un’analisi materialista di queste differenze, ma questa non sarebbe un’analisi specificamente marxista. Per esempio, la sociologia mainstream o la scienza politica, ricercatori che vengono da una tradizione weberiana o bourdieusiana – considero Bourdieu essenzialmente un materialista – potrebbero proporre delle analisi dei fenomeni che i marxisti non possono spiegare o che almeno non spiegano. Si tratterà tuttavia sempre di analisi materialiste. La principale battaglia contro gli studi postcoloniali non è una battaglia tra il marxismo e la teoria postcoloniale – sebbene essa esista davvero – ma piuttosto una battaglia che consiste nel difendere il materialismo dalla teoria postcoloniale.
D.: Uno degli aspetti del suo percorso che ha destato una certa sorpresa è il ricorso a una teoria dei «bisogni fondamentali», se non addirittura a una teoria della natura umana. Dagli anni ’60 la teoria sociale sembra essere abbastanza ostile all’idea di una natura umana. Perché questo ritorno a un’idea apparentemente così difficile da mobilitare?
R.: Perché penso che sia vera. È vero o no che la gente, quale che sia la loro cultura, ha dei bisogni fondamentali comuni? La mia opinione è che sia vero. È impossibile spiegare una larga parte delle variazioni culturali senza questo riferimento ai bisogni fondamentali. Una delle cause per cui le culture differiscono tra loro è che gli individui sono collocati in ambienti naturali ed ecologici differenti e hanno inoltre a disposizione delle maniere molto diverse di riprodursi, dando luogo così a differenti insiemi di strutture sociali e di istituzioni deputate alla loro riproduzione. Queste strutture e queste istituzioni generano a loro volta delle culture, delle differenti maniere di vedere e comprendere il mondo. Una delle ragioni per cui le culture sono diverse è dunque che sono accomunate dalla stessa lotta per la sopravvivenza. Se gli esseri umani non riconoscessero o non fossero motivati dalla necessità di soddisfare questi bisogni fondamentali, semplicemente si estinguerebbero. Penso che questo sia fondamentale, ed è tanto evidente al punto che bisognerebbe interrogare l’integrità intellettuale di chi cerca di negare tutto ciò. Si tratta di quello che in principio mi ha spinto a scrivere questo libro.
La questione è dunque la seguente: è vero che gli individui hanno dei bisogni fondamentali e sono motivati da questi bisogni? Permettetemi di sottolineare un errore analitico che i teorici fanno regolarmente. Essi trovano qualche situazione in cui un individuo corre dei grandi rischi, o sacrifica persino la sua vita, e allora concludono: “Guardate, questo è l’esempio di qualcuno che non privilegia i suoi bisogni fondamentali. Questo non entra in contraddizione con l’idea che questi bisogni possono giocare il ruolo di motivazioni, con l’idea che esiste una natura umana?”. Ma lì abbiamo un modo fondamentalmente sbagliato di considerare il mondo sociale. Non si hanno delle generalizzazioni partendo da aberrazioni o da eccezioni. Si comincia in primo luogo da ciò che è normale, da quello che è il modello normale, elementare di comportamento, da quello che prevale in quanto motivazione. Da lì si cerca di comprendere perché vi sono delle deviazioni rispetto al modello normale. Chi nega i bisogni fondamentali considera innanzitutto le eccezioni, dicendo in seguito che queste eccezioni invalidano ogni argomento che afferma che la maniera normale di essere motivato o di agire è qualcosa di diverso. Questo è sbagliato da un punto di vista analitico ed è empiricamente falso. Se essi pensano dunque che i bisogni fondamentali non esistano, vorrei averne la prova. Mostratemi una cultura in cui la regola generale è che vi sia una uguale probabilità che le persone si suicidino e che desiderino vivere. Qualora trovaste tutto ciò allora concorderei che i bisogni fondamentali non sono i fattori-tipo della motivazione. Ma certamente sappiamo che questo è impossibile, non vi è alcuna prova di questo. Per questa ragione i teorici postcoloniali si impegnano in ogni tipo di argomento oscurantista.
D.: Che cosa pensa degli usi che sono stati fatti di Gramsci nei Subaltern Studies? Quali sono le relazioni tra la ripresa subalternista del concetto gramsciano di egemonia e il concetto marxiano di ideologia?
R.: Credo che sia un Gramsci di un certo tipo che sia importante per Guha. Si tratta di un Gramsci letto attraverso il prisma dei Cultural Studies e, in particolare, tramite i lavori della scuola di Birmingham diretti da Stuart Hall. Ci tengo a precisare che si tratta di un Gramsci “di un certo tipo”, un Gramsci che ha una concezione dell’egemonia intesa come consenso ideologico – consenso ideologico che significa qui consenso basato sulla legittimità. Penso che sia una lettura plausibile di Gramsci, anche se non credo sia una lettura corretta. Non ritengo che Gramsci abbia pensato che la ragione per cui gli operai diano il loro consenso al capitalismo è perché essi pensano che sia legittimo o perché vi sia una cultura inglobante in cui la borghesia parli per loro o per la nazione. È infatti così che Guha descrive l’egemonia: per lui la borghesia conquista l’egemonia poiché parla a nome di tutta la nazione. L’idea che Gramsci abbia potuto pensare che la borghesia fosse un legittimo portavoce degli interessi degli operai, mentre marciva in una prigione fascista, mi sembra perlomeno curiosa. La mia lettura di Gramsci è alquanto differente. Ritengo che i Quaderni dal carcere siano un testo molto caotico che autorizza differenti interpretazioni. Credo che per Guha il Gramsci di tipo culturalista sia più fondamentale che il Marx deL’ideologia tedesca. Ma credo pure che Gramsci si sarebbe del tutto accontentato deL’ideologia tedesca, e che la versione culturalista della sua opera sia una distorsione operata negli anni ’70 e ’80 che Guha ha fatto propria. Secondo me si tratta di un errore, credo che una delle cose che oggi dovremmo fare sia quella di mettere in luce un Gramsci diverso, più in sintonia con una comprensione più difendibile del capitalismo.
Il punto essenziale in tutto ciò è che non è importante sapere se Guha resti fedele a Gramsci o se Chatterjee lo sia nei confronti di Marx. Quello che importa è sapere se hanno ragione o torto. Teorici come Marx e Gramsci sono dei pensatori da cui dovremmo trarre ispirazione. Ma che le nostre idee coincidano o meno con le loro non può costituire il test decisivo per dire se le nostre idee siano vere o false. Il vero test consiste nel vedere se le nostre prove reggono o meno. Nel corso del dibattito che ho avuto con Chatterjee durante la conferenza Historical Materialism a New York[19], sono stato accusato di deviazione rispetto al marxismo, ho quindi detto qualcosa che nella blogosfera è stato giudicato divertente: «Deviare non mi disturba affatto». Quel che volevo dire era che non importa se io stia seguendo Marx alla lettera o meno, importa invece se la prova che io adduco supporta o meno la mia argomentazione. Che qualcuno la possa trovare un’affermazione curiosa o inaccettabile mostra soltanto fino a che punto la cultura intellettuale di sinistra sia precipitata.
D.: Nel suo libro lei sembra collegare la critica postcoloniale dell’“epistemologia” occidentale e l’idea, difesa da numerosi teorici postcoloniali, che il capitalismo non sia un sistema universale. Perché la critica dei saperi occidentali è correlata all’idea che il capitalismo non si è radicato nel mondo intero?
R.: Non credo vi sia una rilevante posta in gioco epistemologica in questo dibattito. Non penso che i Subaltern Studies operino attraverso un’epistemologia differente da quella, diciamo, dei marxisti. Ai subalternisti piace molto utilizzare questo termine e pretendono che vi siano in effetti delle profonde differenze epistemologiche. Ma alla fine sono tutti dei realisti, formulano delle proposizioni basate su prove e utilizzano delle argomentazioni razionali anche quando negano l’importanza della razionalità. Esistono delle persone attorno ai Subaltern Studies che potrebbero presentare delle differenze rispetto ai marxisti, ma la maggior parte dei subalternisti sostengono un realismo epistemologico.
Di certo vi è una correlazione, o se volete una connessione, tra l’idea che il capitalismo fallisca a universalizzarsi e quella che le teorie europee siano incapaci di comprendere l’Oriente. Questa connessione riposa sul fatto che gli autori postcoloniali pensano che le teorie europee presuppongano due cose: in primo luogo che il capitalismo si universalizzi e, in secondo luogo, che questa universalizzazione omogeneizzi il mondo. Questo secondo punto costituisce la chiave del dibattito, poiché viene tipicamente ritenuto che questa omogeneizzazione sia ciò che è richiesto affinché delle categorie astratte abbiano una presa qualunque sul mondo non occidentale. Ora, io ho affermato due cose nel mio libro: da una parte che, in effetti, il capitalismo si universalizza e che le teorie europee hanno quindi ragione a questo riguardo; dall’altra parte che l’universalizzazione non è la stessa cosa dell’omogeneizzazione. L’universalizzazione del capitale genera in realtà ogni sorta di differenza e la teoria sociale che viene dall’Europa non suppone che il mondo debba essere omogeneo affinché le sue categorie funzionino. Quel che mostro nel libro è che la teoria che Marx ci ha lasciato sostiene la tesi dell’universalizzazione del capitale, dandoci nondimeno gli strumenti per comprendere la differenza che il capitale genera. L’errore fondamentale della teoria postcoloniale è di assimilare universalizzazione e omogeneizzazione. Si tratta di un errore presente dappertutto in questi lavori. Si tratta di un semplice errore analitico, ma questo ha delle conseguenze molto rilevanti.
D.: Se si sostiene come fa lei che il capitalismo produce delle differenze universalizzandosi, non ne consegue che la teoria sociale deve essere “adattata” o “tradotta” in contesti non occidentali?
R.: Una teoria astratta è sempre modificata quando si applica a delle realtà concrete. La questione è di sapere fin dove si spinge questa modifica. Quel che affermano il marxismo e la teoria sociale è che un’istituzione sociale come il capitalismo debba, per poter essere chiamata “capitalismo” in contesti differenti, presentare certe somiglianze. Se prendiamo la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, che sono tutti dei paesi capitalisti, noi riscontriamo, ad un certo livello di astrazione, che essi condividono alcune caratteristiche comuni. Dunque, da questo punto di vista, non c’è bisogno di modificare nulla. Vediamo che seguono delle dinamiche molto simili e che si possono descrivere queste dinamiche a un certo livello di astrazione, ignorando le restanti caratteristiche di queste società. Ci concentriamo soltanto su quel che esse hanno in comune. Ma per apprezzare come esse differiscano le une dalle altre dobbiamo fare entrare in gioco altri fattori relativi alle loro storie, alle loro istituzioni, che sono diverse le une dalle altre. Per esempio, a differenza degli Stati Uniti, la Francia ha uno stato sociale piuttosto ben sviluppato che modifica il funzionamento del suo capitalismo. Questi paesi sono entrambi capitalisti, ma ci sono delle differenti variazioni all’interno del capitalismo stesso.
Credo che analizzare queste differenze richieda infatti di includere nell’analisi alcuni meccanismi e fattori causali che non sono presenti nella versione più astratta della teoria del capitalismo. I fattori causali che descrivono il più alto livello di astrazione sono sempre all’opera, ma il loro funzionamento è modificato dalla presenza di altri fattori che non sono descritti dalla teoria al più alto livello di astrazione e che si adattano ad essa a un livello di astrazione più basso. Non ritengo che si tratti realmente di una modifica della teoria, penso che sia semmai una concretizzazione di essa. Il marxismo deve sempre spostarsi dall’astratto al concreto. Il problema con i teorici postcoloniali è che essi pensano che ogni movimento dall’astratto al concreto, nel quale si fanno rientrare dei fattori che non sono descritti al livello più alto e più astratto, significhi modificare la teoria. Non si tratta di modificare la teoria, ma di accordarla con la realtà.
Che cos’è la teoria dello sviluppo ineguale e combinato di Trotskij? È una teoria che spiega quel che accade quando il capitalismo si introduce tardivamente in un paese meno sviluppato. Che cos’è la teoria della Nuova Democrazia di Mao? Si può essere d’accordo oppure no, ma è una teoria che dice quel che occorre fare in un paese in cui predominano i contadini. Qual è stato, prima di ogni altro, il contributo principale di Lenin alla teoria marxista? È stata la sua teoria dello sviluppo tardivo del capitalismo, nel suo primo libro Lo sviluppo del capitalismo in Russia. Qual è stato il contributo più importante di Lenin alla sociologia agraria? La teoria delle classi nel capitalismo agrario, una teoria che Mao ha in seguito sviluppato. Qual è stato il contributo di Amílcar Cabral alla teoria rivoluzionaria? La sua concezione del proletariato rivoluzionario nei contesti di arretratezza. Che cosa ne è di Che Guevara o del lavoro innovatore di qualcuno come Walter Rodney sull’Africa o di C.L.R. James sui Giacobini neri? Sono dei tentativi di concretizzare la teoria marxista nel Sud. Quel che desta una certa curiosità è che persone come Rodney e James sono oggi presentati come dei teorici postcoloniali. È del tutto falso. Essi stessi si pensavano come appartenenti alla tradizione marxista.
D.: Questo ci porta a un’ultima domanda. Vi è un’affermazione nel suo libro sulla quale sarebbe interessante ritornare. Contrariamente all’interpretazione di Robert J.C. Young, lei nega ogni forma di continuità tra l’anticolonialismo e la teoria postcoloniale. Può spiegarci il perché?
R.: Penso che sia evidente. Se voi, per così dire, tornaste indietro negli anni ’70, e, potendo parlare con le grandi figure dell’anticolonialismo, chiedeste loro a chi si ispiravano, vi direbbero a Marx, Engels, Lenin. E se voi domandaste quali sono i loro valori, vi risponderebbero che credono in un ordine razionalista, moderno e forse socialista, ovvero in dei valori che riguardano l’ethos progressista della tradizione razionalista (Enlightenment) del diciannovesimo secolo. Ritengo che sia così evidente da non richiedere alcuna ulteriore discussione. È vero che Fanon, aveva una propensione all’anti-razionalismo, ma penso anche che egli riconoscesse l’importanza della tradizione razionalista. Non credo sia in alcun modo credibile l’idea che essi siano dei precursori di Spivak, Homi Bhabha o della scuola deiSubaltern Studies. In realtà, i Subaltern Studies ai loro inizi furono concepiti come una mutazione all’interno del marxismo. Il punto di svolta verso la teoria postcoloniale è venuto successivamente, negli anni ’90.
La vera questione è di sapere perché Young o chiunque altro possa sentire il bisogno di fare un collegamento tra gli ultimi teorici postcoloniali e Marx. Penso che la ragione sia quel che dico nel libro, ovvero che tra di loro vi è il desiderio di presentarsi come gli eredi della tradizione radicale, e per farlo, devono stabilire un legame diretto tra essi stessi e gli iniziatori di questa tradizione. Il mio punto di vista è che se essi sono davvero gli eredi di questa tradizione, allora dovrebbero essere in grado di produrre una politica che sia coerente con essa. Ma se, come ho già detto, la politica che essi producono essenzializza l’Oriente, se nega l’importanza dei bisogni universali, la rilevanza degli interessi e il fatto che essi siano la fonte principale della politica, se rifiutano di accordare un posto centrale al capitale in quanto categoria sociale, per quanto di altro si possa dire sulla teoria postcoloniale, non si può in nessun caso accettare l’idea che essa abbia un qualsivoglia legame con Marx, Engels, Lenin, Mao, ecc. Il movimento di liberazione africano, Cabral, la liberazione in Mozambico, Rodney, sono tutti socialisti. Possono esserci qua e là dei disaccordi con loro, ma essi appartengono alla famiglia dei socialisti anticapitalisti della tradizione razionalista. L’idea che siano dei precursori dei Subaltern Studies o della teoria postcoloniale, che oggi proclama il suo rifiuto dei valori della tradizione razionalista, penso sia estremamente contestabile.
D.: Da questo punto di vista come considera C.L.R. James?
R.: C.L.R. James fu un trotzkista e un marxista per tutta la vita. James avrebbe riso come un pazzo, davanti a un testo degli ultimi teorici postcoloniali, se voi gli avrete detto “sono i vostri figli”. Davvero, avrebbe riso come un pazzo…

Traduzione dal francese di Orazio Irrera.


[1] Vivek Chibber insegna sociologia alla New York University (NYU). È autore diLocked in Place: State-Building and Late Industrialization in India, Princeton University Press, Princeton-Oxford 2003.
[2] Félix Boggio Éwanjé Épée è dottorando presso il Centre d’Économie de Paris Nord (CEPN, Université Paris 13 Nord) ; Orazio Irrera è chercheur associé presso l’Université Paris 1 – Panthéon-Sorbonne e codirettore della rivista materiali foucaultiani; Matthieu Renault è chercheur postdoctoral all’Université Paris 13 Nord — PRES Sorbonne Paris Cité.
[3] In questa sede non ci occuperemo dell’identificazione che Chibber fa diSubaltern Studies e Postcolonial Studies né dell’affermazione secondo cui queste prospettive, malgrado le differenze e le tensioni interne al campo degli studi postcoloniali, costituiscono una teoria, premesse che forse qualcuno potrebbe contestare, ma che l’autore giustifica esplicitamente e che, almeno nel quadro dei suoi obiettivi, non ci sembrano infondate.
[4] Cfr. Paul Heidman & Jonah Birch, « In Defense of Political Marxism »,International Socialist Review, n° 90, 2013 (http://isreview.org/issue/90/defense-political-marxism)
[5] Secondo una tradizione storiografica molto differente, ma a partire da obiezioni simili, il concetto di rivoluzione borghese è contestato da Yannick Bosc et Florence Gauthier nella loro prefazione a Albert Mathiez, La Réaction thermidorienne, La fabrique, Paris 2010.
[6] Cfr. infra estratto n. 1.
[7] L’argomentazione di Chibber sulla razionalità e gli interessi è afflitta dagli stessi difetti. L’autore accusa i teorici postcoloniali di rifiutare ogni nozione oggettiva e universale di “interesse” socio-economico. Ora, a questo viene qui contrapposto un razionalismo che si ispira ai dibattiti propri al marxismo analitico. Se questi dibattiti sono appassionanti dal punto di vista della metodologia delle scienze sociali, non si può in ogni caso esigere che gli autori postcoloniali sottoscrivano delle tesi che sono molto controverse entro la teoria sociale presa nel suo insieme.
[8] Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi, Roma 2004, p. 41.
[9] Robert J. C. Young, Postcolonialism : an Historical Introduction, Blackwell Publishers, Oxford 2001.
[10] Cfr. infra estratto n. 2.
[11] Cfr. infra estratto n. 3.
[12] Si può trovare una breve rappresentazione di tutto ciò nell’introduzione di Trotskij alla sua Storia della Rivoluzione russa [NdA].
[13] Cfr. Karl Kautsky, La questione agraria, Feltrinelli, Milano 1959 [NdA].
[14] Il riferimento è alla nozione di “Storia 2” in Dipesh Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, op. cit., p 93 e sgg. [NdT].
[15] Per quel che riguarda il caso dell’orientalismo di Marx, credo che talvolta egli ne sia stato effettivamente il responsabile. Nondimeno, le accuse dei subalternisti contro Marx, quelle che lo dipingono come un apologeta dell’imperialismo, sono così fuori bersaglio da suggerire una genuina ignoranza dalla loro parte  nei confronti della sua opera. Fortunatamente, uno straordinario libro recentemente pubblicato sgombera il campo da queste accuse una volta per tutte. Cfr. Kevin B. Anderson,Marx at the Margins: On Nationalism, Ethnicity, and Non-Western Societies(University of Chicago Press, 2011). Si confronti l’impressionante padronanza di Anderson con le accuse mal formulate e piuttosto prive di fondamento di Gyan Prakash nel suo “Postcolonial Criticism and Indian Historiography”, in Social Textvol. 31/32 (1992), pp. 14-15 [NdA].
[16] Si ringrazia l’editore Verso per averci autorizzato alla traduzione di questi estratti.
[17] Si ringrazia Felix Boggio Éwanjé-Épée per il contributo alla trascrizione nell’originale inglese della presente intervista.
[18] Vivek Chibber è intervenuto presso la Maison des Sciences de l’Homme a Parigi, il 26 luglio 2013, nel quadro del seminario “Décolonisation et géopolitique de la connaissance” diretto da Orazio Irrera e Matthieu Renault [NdT].
[19] Chibber fa riferimento alla conferenza “Marxism & the Legacy of Subaltern Studies” organizzata da Historical Materialism a New York il 26 aprile 2013, cui seguì il dibattito tra lo stesso Chibber, Partha Chatterjee e Barbara Weinstein. La registrazione audio/video di questo evento è disponibile integralmente online:http://www.youtube.com/watch?v=xbM8HJrxSJ4 [NdT].

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